Parole di plastica e luoghi comuni linguistici da evitare per scrivere (e parlare) meglio.
Hai presente quando vedi una pagina pubblicitaria, un post Facebook, un manifesto, una brochure e riconosci senza ombra di dubbio un’immagine stock già vista e rivista in mille altri contesti diversi, incollata là alla meno peggio, senza nemmeno una piccola rielaborazione? O quando la stessa faccia (e non sto parlando di personaggi famosi o influencer) te la ritrovi a pubblicizzare una compagnia di assicurazione, una marca di detersivo e un negozio di mobili? Ti dà fastidio, non è vero? Non solo, a volte ti fa pure perdere fiducia nel marchio che usa quell’immagine. Nel migliore dei casi, ti lascia indifferente.
La ripetitività, la mancanza di originalità, il già visto, sono cose che non solo ammazzano la creatività, ma rischiano di rendere ogni comunicazione poco efficace, e sai perché? Perché la rendono piatta, certo, ma non solo: la cosa peggiore è che la rendono FINTA. Una comunicazione di plastica, per dirla in un altro modo.
Adesso proviamo ad applicare questo concetto al mondo delle parole. Eh sì, perché anche qua, forse meno visibili a primo impatto, ma non meno deleteri, ci sono delle espressioni, dei modi di dire, dei termini, che vengono usati sempre, in contesti anche molto diversi, ma senza un reale motivo, forse solo in virtù di un’abitudine che non riusciamo ad estirpare. Quando te li trovi davanti, scritti su un manifesto, all’interno di una presentazione aziendale, in un articolo, o anche quando li senti ripetersi in più servizi televisivi o radiofonici, fanno lo stesso identico effetto di un’immagine stock abusata: nel migliore dei casi, passano inosservati. Nel peggiore, rendono la comunicazione piatta e poco credibile.
Quello che le immagini di stock sono per i visual, per la lingua (scritta, ma anche parlata) sono plastismi (o parole di plastica) e luoghi comuni linguistici.
“…ma io non riesco ad accontentarmi, se tutto quello che sai darmi è un amore son parole di plastica…”
I plastismi sono definiti dall’Accademia della Crusca come “vocaboli ed espressioni logorati dall'uso che finiscono per uniformare e impoverire il lessico”.
Ornella Castellani Pollidori, che se n’è occupata nel suo La lingua di plastica, ci mette in guardia dai rischi dei plastismi, delle “formule preconfezionate” che finiscono per impigrirci, dal momento che continuiamo ad usarle senza pensare a delle soluzioni lessicali alternative e, con tutta probabilità, più adeguate. È in questo senso che i plastismi rischiano di impoverire la nostra lingua (e quindi anche il nostro pensiero, qualcuno direbbe: la Neolingua di Orwell ti dice niente?), ed è per questo che, chi si occupa di scrittura (e più in generale chi riconosce alla lingua la giusta importanza) dovrebbe impegnarsi ad evitarli, sostituendoli sistematicamente con espressioni più originali e pertinenti, in grado di contrastare il pericolo del “piattume”.
Il concetto di “parole di plastica”, dopotutto, è insito in ognuno di noi: tutti sappiamo (anche chi non scrive abitualmente) che ci sono dei termini o delle espressioni che bisognerebbe evitare con la stessa prontezza di riflessi con cui evitiamo le buche in bicicletta. Ce lo ripetevano anche i nostri insegnanti a scuola: guai a usare “praticamente” per iniziare una frase, o “importante” se si possono trovare degli aggettivi più precisi. O, per uscire dal contesto scolastico, se ci sentiamo dire “Non sei tu, sono io” non ci arrabbiamo perché si tratta di una frase fatta, e per questo percepita come una scusa e una motivazione poco sincera? Sono tutti esempi di parole ed espressioni abusate, utilizzate ormai da tutti nei contesti più diversi e quindi private del loro significato, della loro capacità espressiva e della loro veridicità.
Questo concetto dovrebbe essere chiaro a tutti, eppure per abitudine o semplicemente per comodità (leggi anche: per mancanza di tempo) continuiamo a reiterare questa tendenza e ad usare luoghi comuni, frasi fatte, espressioni che dire già sentite è far loro un complimento. E non solo nelle nostre comunicazioni quotidiane, non solo nella lingua parlata: le mettiamo per iscritto, lì, in bella mostra, e le usiamo anche per comunicazioni pubblicitarie e/o ufficiali. Perché se è vero che alcune di queste espressioni sono più tipicamente usate nella lingua parlata (ma non necessariamente in contesti informali), dove in effetti si ha meno tempo per pensare alle espressioni migliori da usare, e in questi casi i plastismi ci vengono in aiuto proprio perché ci permettono di avere qualche centesimo di secondo in più per riflettere su cosa dire (è il caso di espressioni quali “e quant’altro”, “detto questo”, “quella che è la questione”, che non servono proprio a un bel niente), d’altro canto è innegabile che anche il linguaggio giornalistico e pubblicitario ne siano ormai intaccati.
Provate a far caso ad alcune espressioni usate nei servizi dei telegiornali o in certi quotidiani: vi accorgerete subito come ce ne siano alcune che sembrano quasi imprescindibili, da quanto vengono sempre e indiscutibilmente usate. Dalle squadre di calcio che dopo una partita combattuta riescono comunque a “portare a casa il risultato” ai “tragici bilanci” che seguono catastrofi naturali o incidenti di varia natura, il linguaggio usato nei media è spesso infarcito di quelli che possiamo definire come luoghi comuni linguistici (il Post ne ha raccolti molti altri qui).
Lo stesso vale per i copy aziendali: il principe dei luoghi comuni, in questo senso, è il “leader del settore”: è incredibile quante aziende leader ci siano in Italia, e la cosa più incredibile è che sono quasi tutte “giovani e dinamiche”! Ma se la nostra azienda è descritta con le stesse parole con cui vengono descritte altre 100 attività, qual è la nostra specialità, cos’è che ci differenzia? E soprattutto, chi dice la verità? Chi è davvero il leader del mercato? Oltre a non dire niente di noi, stiamo anche minando la fiducia che gli altri possono riporre in quel che diciamo. Evitare le espressioni fatte, di plastica, i concetti già sentiti, non serve “solo” a fare la propria parte nella lotta all’impoverimento linguistico, e non è nemmeno solo una dimostrazione di creatività e originalità: in termini pratici, significa anche essere più onesti e, di conseguenza, comunicare in maniera più efficace.
E allora cerchiamo di dire basta alle espressioni stock!