Se negli ultimi tempi vi siete fermati a guardare con attenzione le campagne pubblicitarie e social dei maggiori brand, vi sarete anche accorti che sempre più spesso usano i propri canali e le proprie campagne per prendere posizione su importanti questioni a carattere politico e sociale e veicolare messaggi apparentemente distanti da quello che ci si potrebbe aspettare da un marchio di scarpe o da una bibita. In altre parole, non fanno solo promozione, fanno anche politica.
Sembra strano, vero? In un’epoca in cui la comunicazione politica sembra sempre più basica, con (alcuni) politici che fanno di tutto per “spoliticizzarsi” e farciscono i propri profili social di immagini prese dalla propria quotidianità, di esternazioni lapidarie “di pancia” e baruffe varie (tanto poi basta ritrattare), sembra che i brand, e i professionisti che dei brand curano la comunicazione, si siano presi sulle spalle il compito di lanciare messaggi importanti, prendere posizione, scuotere le coscienze.
Un nome su tutti: Nike, forse il marchio che più di ogni altro ha fatto scalpore, negli ultimi anni, con le proprie campagne palesemente a sostegno di cause sociali importanti. La campagna con protagonista Colin Kaepernick, quarterback della National Football League che si inginocchiava durante l’inno come forma di protesta contro le discriminazioni ancora presenti negli Stati Uniti nei confronti delle minoranze, e che per questo è stato emarginato dalla NFL, è una di quelle in grado di avere un impatto emotivo sorprendente e spingere chi la vede a farsi delle domande e a prendere posizione: a favore o contro di Kaepernick, ma anche a favore o contro Nike.
Nike è l’esempio più lampante (e fra i meglio riusciti) di brand che prendono posizione, ma ce ne sono moltissimi altri (soprattutto all’estero in verità, meno in Italia). A questo punto, però, due sono le domande principali che ci possiamo porre: ma la gente si aspetta che i brand dicano la loro o è una cosa che disturba? E soprattutto i brand traggono davvero beneficio da campagne del genere, o non rischiano invece di dividere il pubblico e perdere quindi delle fette di mercato?
Prendiamo ancora il caso di Nike: la campagna con protagonista Kaepernick ha sicuramente creato due opzioni opposte rappresentate da coloro che sostenevano la scelta del colosso e quelli che, invece, si sono dati al boicottaggio selvaggio del marchio. Per parlare prosaicamente di cifre, da una parte la campagna avrebbe fatto perdere alla Nike oltre 4 miliardi di dollari di capitalizzazione in Borsa, dall’altra però avrebbe attirato più investitori fra i Millennials (probabilmente il target che l’azienda voleva colpire) e, a conti fatti, alla fine dell’anno i ricavi non sono stati per nulla negativi, anzi, sarebbero andati oltre le previsioni.
Oltre ai dati relativi ai risultati della Nike su questa specifica campagna, a dare una risposta alla nostra domanda sono anche i risultati di un sondaggio effettuato da Sprout Social con l’obiettivo di capire cosa effettivamente il pubblico si aspetta dai brand.
Dal sondaggio, realizzato su otre 1.000 consumatori statunitensi, emerge che il 41% degli intervistati pensa che sia abbastanza importante che i brand prendano posizione su tematiche sociali e politiche, e solo l’11% reputa che questo tipo di comunicazione non sia per niente importante. Per quanto riguarda il canale su cui veicolare questi tipi di messaggi, a prevalere sono i social media, con il 58% delle preferenze. Sembrerebbe quindi che il pubblico, almeno per quanto riguarda il mercato statunitense, si aspetti dai brand questo tipo di messaggi. Secondo la ricerca, inoltre, sarebbero più i benefici dei rischi per le aziende che prendono posizione, e questo perché le persone sembrano avere delle reazioni più forti quando sono d’accordo con la posizione presa da un brand rispetto a quando sono in disaccordo.
Quindi questo cosa significa? I brand dovrebbero prendere posizione su tematiche rilevanti in ogni caso? No. Un fattore importante nel successo di una campagna, anche se si tratta di campagne mirate verso la politica, è la pertinenza. Ci deve essere, in altre parole, un qualche legame fra il messaggio lanciato e la natura del brand, i suoi valori, la percezione che il pubblico ne ha, il testimonial scelto (se c’è) e così via. Torniamo di nuovo alla Nike: un brand sportivo che ha fatto del superamento dei limiti e dell’impegno personale due delle sue cifre fondamentali può risultare credibile usando un testimonial che rappresenta il superamento delle barriere, la forza delle proprie convinzioni, il coraggio delle proprie scelte e delle proprie azioni. Il successo comunicativo della campagna si basa proprio sulla coerenza fra testimonial scelto, messaggio veicolato e valori del brand.
La prova del nove ce la dà la campagna dellaPepsi, riconosciuta come come un vero e proprio flop, in cui una testimonial iper famosa (Kendall Jenner) ma non immediatamente riconducibile a tematiche di tipo sociale, impersona la protagonista di una dimostrazione di piazza, in cui un nugolo di giovani manifesta per una non meglio identificata causa. A risolvere la tensione (che non c’è, la dimostrazione sembra più una sfilata) è proprio la Jenner, che offre una Pepsi a un poliziotto eliminando così gli screzi fra manifestanti e forze dell’ordine. In questo spot i cortei di protesta vengono banalmente strumentalizzati, non viene lanciato un vero messaggio, non viene usato un testimonial che possa farsi carico di una vera questione politico/sociale. In altre parole, se la politica appare come una mera strumentalizzazione senza nessun appiglio col marchio, la cosa non può funzionare, perché non viene lanciato nessun messaggio e non viene presa nessuna posizione rilevante su questioni pressanti. Non a caso lo spot è stato ritirato quasi subito con tanto di scuse, fra le lacrime, della giovane modella.
E in Italia? Anche in Italia alcuni brand più coraggiosi, pur non essendo dei colossi come la Nike, stanno sperimentando questa linea comunicativa. Uno degli esempi più lampanti è dato da Taffo Funeral Servicesche, giocando con il tono di voce ironico che ne contraddistingue la comunicazione, non perde occasione per prendere posizione su questioni ed eventi che scuotono l’opinione pubblica, dalle vaccinazioni ai diritti per la comunità LGBT. Da un’azienda conosciuta per il coraggio di parlare di morte in modo ironico, ci si aspetta che usi lo stesso tono anche per dire la propria su importanti questioni sociali, a volte andando apertamente contro politici di spicco.
In Italia, poi, non si può non parlare di campagne pubblicitarie e temi sociali senza pensare a Benetton. Nell’estate 2018 l’azienda ha lanciato una campagna basata su immagini di migranti, senza aggiunta di copy, fedele alla sua storia comunicativa e al proprio universo valoriale, riassunto dallo storico “United Colors of Benetton”. A chi ha criticato questa scelta, il fotografo Oliviero Toscani (che pure non era stato l’artefice degli scatti, realizzati invece da Orietta Scardino) ha risposto così: “Non sono un venditore, né voglio fare pubblicità, voglio solo essere un testimone del mio tempo”.
Che si sia d’accordo o no con la presa di posizione di Toscani e della Benetton, tale affermazione ci dà un importante spunto di riflessione sul ruolo che sta assumendo la comunicazione di brand e sulla missione dei comunicatori nella nostra epoca. ComePaolo Iabichino insegna, anche se “dalle nostre parti si preferiscono i testimonial ai testimoni” (errore fatto anche dalla Pepsi), la nuova missione di chi si occupa di comunicazione è proprio quella di diventare testimoni del proprio tempo, ossia “saper leggere il contesto entro cui il messaggio di marca va in scena” e, di conseguenza, prendere posizione e scuotere le coscienze.
Una sfida di certo non facile, ma di sicuro stimolante, e che forse è arrivato il momento di affrontare: lo chiede il pubblico ma, forse, ce lo chiede anche la nostra coscienza.