Quando la città di Pechino organizzò la sua prima maratona nel 1981, meno di 200 atleti presero parte alla corsa. Lo scorso mese, la 37° edizione dell’evento ha registrato oltre 98 mila richieste di partecipazione per 30 mila posti disponibili, costringendo gli organizzatori ad assegnare i pettorali attraverso una lotteria online. Scenari e opportunità per lo sportswear.
In Cina, running is the new cool. E più in generale, la pratica dello sport è un trend in crescita esponenziale. La federazione cinese di atletica registrava 328 eventi di running aperti al pubblico nel 2016, con 2.8 milioni di partecipanti. Circa il doppio che nel 2015. E per il 2020 si prevedono 800 maratone per 10 milioni di partecipanti.
Dietro questo fenomeno c’è un innamoramento sempre più intenso tra i cinesi e il fitness, che ha aperto in questi anni grandi opportunità nel settore dello sportswear. La Cina si sta trasformando dalla più grande fabbrica al più grande mercato del mondo.
Il mercato cinese offre infatti il mix perfetto di ingredienti per il successo alle aziende produttrici di sporting goods e activewear. 415 milioni di millennials, le cui abitudini di consumo evolvono rispetto alla generazione precedente, guardano con sempre maggiore interesse al fitness e alla cura del fisico. Una classe media in ascesa, sia in termini quantitativi che qualitativi, nutre la legittima aspirazione di una vita più sana. Su tutto ciò si innesta la spinta del settore pubblico, pronto ad investire nello sport come forse in nessun altro Paese al mondo: pensiamo solo agli sforzi fatti per organizzare nel paese i giochi olimpici del 2008 a Pechino e i giochi olimpici della gioventù a Nanchino nel 2014.
È il boom dell’athleisure - il mix tra athletism and leisure, fitness e tempo libero - che contribuisce al crescente appetito del mercato cinese per il settore. Proprio come accade da noi da decenni, anche i consumatori cinesi acquistano vestiario che può essere utilizzato sia per fare esercizio, che indossato tutti i giorni in situazioni casual. Il target degli alto-spendenti, i nuovi ricchi, includono sempre più spesso nel proprio paniere di acquisto i brand dello sport e secondo una ricerca di Euromonitor il mercato cinese dello sportswear supererà quello del lusso entro il 2020.
Sempre secondo Euromonitor, le vendite di sportswear in Cina sono cresciute dell’11% nel 2016, contro una crescita a livello mondiale del 5%. Un mercato che vale oggi 28.4 miliardi di dollari - secondo solo agli Stati Uniti - e che a questa velocità arriverà a contare 43 miliardi nel 2020.
A trarre vantaggio da questo mix di condizioni favorevoli sono sia i brand domestici che i giganti mondiali del settore. Adidas ha registrato una crescita del 22% in Cina, lo scorso anno. E nel primo trimestre del 2017, Nike è cresciuta del 20.1% all’ombra della grande muraglia.
Come si fa pubblicità in Cina? Come entrare in sintonia con un target che sembra essere così lontano dai nostri modelli? Abbiamo parlato di innamoramento, e come in ogni storia d’amore che si rispetti, sono gli elementi emozionali a prevalere su quelli razionali.
Le campagne dello sportswear in Cina sono di tipo soft-selling: evocano suggestioni, parlano di stile di vita, più che di risultati sportivi. Propongono fattori di cambiamento, più che traguardi. Vediamo qualche esempio.
Quando si tratta di branding, Nike punta sul potere della semplicità, intesa come forma espositiva e creazione di link valoriali con il proprio target. Uno schema seguito anche sul mercato cinese, dove l’azienda si propone come riferimento in termini di performance e come fonte di ispirazione per una nuova generazione.
Tutti conosciamo la tagline “Just Do It”. L’abbiamo vista declinata in mille forme, e fa ormai parte delle nostre vite di consumatori occidentali. Una tagline che Nike ripropone sul mercato Cinese nel 2016, con la campagna “The Next Wave” creata da Wieden & Kennedy Shanghai. Il video di 90 secondi parte da un ragazzino che palleggia in strada, e si sviluppa in una colossale “onda” di atleti che praticano diversi sport - dai più classici fino al parkour - contro lo skyline di Shanghai.
La creatività martella insistendo su tutti i motivi per i quali non bisogna fare sport. Non bisogna farlo perché gli altri ci guardano. Non bisogna farlo secondo le regole. Non bisogna farlo per una convenzione. Chiudendosi con il classico “Just Do It”, ci dice che non c’è un modo giusto di fare sport. Il messaggio definisce il target di millennials cinesi in modo disruptive: sottolinea ciò che non sono, amplificandone le differenze con la generazione precedente. Nike non vende scarpe ai cinesi. Vende un modo di essere nuovo. L’energia per cambiare. La motivazione per essere veramente se stessi e diversi dai propri padri.
Nel 2006, Kobe Bryant debuttava nel commercial Nike “Love me or Hate Me”. Dieci anni dopo, al suo ritiro dall’NBA nel 2016, torna in una creatività emozionale intitolata “Don’t Love Me. Hate Me”, pensata proprio per il mercato cinese dove la star del basket ha un’enorme fanbase. Close-ups di Kobe in bianco e nero si alternano a scene sul campo, mentre il campione dice ai propri fans che non dovrebbero amarlo, ma odiarlo. Odiarlo perché li ha fatti alzare presto la mattina, correre, sudare, allenarsi oltre ogni limite per cercare di imitarne le performance. “I demanded greatness, and greatness demands everything. Love me when you become greater,” conclude la star. Ancora una volta, un messaggio motivazionale, un discorso alla nazione dei suoi fan, ad una generazione di cinesi che vede cambiare il proprio paese giorno dopo giorno, costruendosi il futuro con le proprie mani.
Nike è ancora il leader di mercato, in Cina. Ma Adidas è a poche lunghezze e punta molto sul catturare gli aspetti fashion dell’ondata di atletismo del mercato cinese, bilanciando performance e style sia nei prodotti che nella comunicazione. Per Adidas le chiavi del mercato cinese risiedono nelle peculiarità culturali - che spesso offrono strade inesplorate da percorrere - e nel link tra sportswear e moda.
Quattro anni fa, quando il mercato dello sportswear femminile era per lo più ignorato in Cina, Adidas è stato il primo brand ad esplorarne le potenzialità. Con il lancio della campagna “All in for My Girls” il marchio tedesco celebra il girl power. E lo fa insistendo su aspetti culturali. Lo sport è inteso come vita sana, momento sociale, libertà dalle regole stringenti. La creatività si sviluppa per strada. A video vediamo una pop star taiwanese - Hebe - circondata da giovani ragazze che fanno una cosa straordinaria nella sua semplicità: vivono liberamente il loro essere donne. Si affermano ricavando un momento per se stesse ed il proprio clan sociale, nella quotidianità di una nazione abituata al negozio più che all’ozio. Ozio inteso alla moda dei latini - otium - come “momento privo di impegni pubblici o di lavoro dedicato alla vita privata”. Una cosa strana eppure desiderata, dalle parti di Pechino.
La creatività non ci propone sudore o addominali scolpiti, ma un gruppo di ragazze che si godono il proprio tempo. Ballano, corrono, saltano, insieme. È un posizionamento chiaro di Adidas. Lo sport non è solamente competizione, ma un momento per stringere relazioni sociali ed emanciparsi. Lo sportswear, ne consegue, non è solamente funzionale allo sport ad alti livelli, ma diventa uno stile di vita. Una campagna di successo che ha permesso ad Adidas di registrate una crescita del 40% nelle vendite di prodotti femminili, senza intaccare lo share di mercato maschile.
In occidente siamo abituati allo stereotipo di una società cinese omogenea, che tiene poco in considerazione le individualità. Ma i millennials cinesi sono assolutamente interessati e motivati nell’esprimere le proprie personalità. Un fattore osservato da Adidas attraverso un attento consumers insight. Il brand tedesco ne ha dato prova nella campagna 2017 “One in a Billion”, uno su un miliardo, che punta proprio a solleticare il desiderio di espressione del target, la volontà di essere speciali, di elevarsi dalla massa.
Il video si apre con una scena tipica del sistema scolastico cinese: gli esercizi mattutini, ripetitivi, tediosi, eseguiti in formazione da decine di giovani uomini tutti uguali, in un anonimo piazzale. Un ragazzo si scuote dal torpore della norma, e rompe la rigida armonia con un dribbling freestyle. È la miccia di un risveglio collettivo, un’ondata di giovani atleti che cominciano a fare sport “alla loro maniera”, sfuggendo dalla convenzione. C’è anche David Beckham, che da forza al messaggio di cambiamento con uno sguardo dei suoi.
La campagna strizza l’occhio al target - qui sia maschile che femminile - invitando ad essere se stessi, a cercarsi dentro, a rompere bonariamente le regole, creando un legame emozionale. Ancora una volta, lo sport non è sudare, è diventare individuo, essere altro rispetto alla massa.
Nell’affrontare il mercato cinese, insomma, ancora una volta la chiave sta nel discorso valoriale. Nell’individuare i benefit del prodotto, servizio o brand oggetto della campagna, vengono scelte non tanto le caratteristiche oggettive, bensì i valori che impattano e ispirano il target.
Gli studi di mercato e i consumers insights identificano come questi valori possano essere declinati in suggestioni risuonanti per il target. La creatività segue, e nel campo dello sportswear solletica il mercato cinese proponendo stili di vita. Vie di fuga, porte per un nuovo corso. Non c’è da stupirsi: in un paese dove il controllo sociale e politico è molto alto, dove le opportunità di “essere speciali” non sono poi tante, lo sport è visto come una delle poche opportunità di espressione dell’individualismo. Un individualismo che, trovando pochi sfoghi, si traduce infine in consumi, con buona pace del Grande Timoniere.