Conor McGregor, 28 anni, irlandese, è diventato un personaggio di rilevanza planetario lo scorso 27 Agosto. Il campione di Mixed Martial Art (MMA) - con il suo inconfondibile, strafottente stile - ha sfidato l’imbattuto campione di pugilato Floyd Mayweather Jr. in un match stellare. Un match che ha generato un hype globale, e che secondo Forbes porterà l’aftermath delle revenues dell’incontro a superare i 600 milioni di dollari.
McGregor ha perso. Non aveva chances. La sua vittoria era data 40/1 da alcuni bookmakers. Eppure, perdendo l’uomo, ha vinto il brand.
L’irlandese è un campione del personal branding. Una fama costruita in parte sui risultati, e moltissimo sull’attitudine personale. Ha oltre 19 milioni di follower su Instagram. 6 Milioni su Twitter. Tatuaggi e autoironia. Trash talking e famiglia al seguito. Un ghigno da epic winner, anche quando perde.
McGregor ci sa fare. Avrebbe richiesto la registrazione del proprio nome e cognome, e del suo soprannome (“the Notorious”) come trademarks presso lo US Patent e Trademark Office. Una mossa per proteggere il proprio personal brand, in linea con lo sfruttamento economico in tutti i campi.
Si tratta di un brand che de factu ha già stretto legami con Reebook, Budweiser, Monster Energy e il videogioco Call of Duty. Non a caso, Forbes mette McGregor al 24esimo posto tra gli sportivi più pagati degli ultimi 12 mesi, con 34 milioni di dollari. E questo era prima del match del millennio.
L’uomo di sport che diventa brand non è certo una novità. Da Joe DiMaggio a Jordan, da Tiger Woods a Valentino Rossi, l’abbiamo già visto succedere decine di volte, in modi diversi, ma con lo stesso modus operandi: la competizione come trampolino di lancio, la conseguente notorietà mediatica, costruzione del personal brand, incremento della brand equity spesso slegato dal risultato sportivo, e monetizzazione.
Ci siamo chiesti però chi sia stato il primo atleta a diventare un brand, e cosa ci possa insegnare.
L’antesignano assoluto fu probabilmente il Capitano Matthew Webb, il primo uomo ad attraversare la Manica a nuoto, nel 1875. Un nome che forse non dice molto. Si tratta però di un pioniere del personal branding in campo sportivo.
Nato nello Shropshire, in Inghilterra, nel 1848, Webb imparò a nuotare sulle rive del fiume Severn. Era un’epoca in cui lo sport non aveva ancora una dimensione di professionismo, né un’organizzazione strutturata come oggi. Piscine non ce n’erano, e si nuotava solo a rana (lo stile libero non era ancora stato importato dagli Stati Uniti, dove era praticato dai nativi americani).
Diventato capitano in seconda della marina mercantile, Webb guadagnò una certa notorietà quando, nel 1873, si tuffò nell’oceano Atlantico da un piroscafo per soccorrere un uomo a mare. Non riuscì nell’impresa, ma il coraggio dimostrato nuotando tra i flutti per 35 minuti gli valse una medaglia, un premio di 100 Sterline, e gli onori in patria.
Proprio quell’anno c’era stato un tentativo - fallito - di attraversare la Manica a nuoto. Webb ne aveva sentito parlare e decise di provarci, sfruttando la notorietà acquisita per monetizzare l’impresa. Un anno dopo, diventato Capitano dell’Emerald, si licenziò e si dedico agli allenamenti. Nel 1875 era pronto all’impresa. La prima volta fallì, era il 12 Agosto, a causa di una tempesta che lo sorprese a circa un terzo del percorso. Ma il tentativo generò un hype mediatico nuovo per quell’epoca, e per un’impresa sportiva.
Il 24 Agosto 1875 Webb ci riprova. Circondato dai giornalisti, si cosparge il corpo di grasso di focena, si alliscia i proverbiali baffi, e si tuffa dal molo di Dover. Alle ore 12.56 comincia a nuotare verso la Francia, senza aiuti, seguito solo da tre piccole imbarcazioni di supporto.
21 ore e 62 chilometri dopo arrivava a Calais, sull’altro lato della Manica, esausto per aver passato la notte in mare a lottare contro le correnti, il corpo piagato dalle punture di medusa.
Webb era diventato un eroe. Ancora oggi, sono più le persone ad aver scalato l’Everest che quelle che hanno attraversato la Manica a nuoto.
Il Capitano trasse immediato vantaggio dal successo, trasformando il proprio nome in un brand. Concesse licenze per la produzione e commercializzazione di porcellane con la propria effige. Divenne conferenziere raccontando la propria storia. Vinse gare con premi in denaro organizzate solamente per sfidarlo. Partecipò ad eventi e dimostrazioni di nuoto estremo, come ad esempio galleggiare per 128 ore consecutive o nuotare per 14 ore al giorno per una settimana di fila- antesignano degli action sports heroes odierni.
L’immagine era quella di uomo con i baffi, seriosamente tranquillo, consapevole eppur non intimidito dal pericolo. “Cap.tain Webb”, associato al pay-off “Swam across the English Channel”, divenne un brand che sopravvisse all’uomo.
Webb morì in azione, tentando di attraversare a nuoto le rapide alla base delle cascate del Niagara nel giugno del 1883. La pressione dell’acqua schiacciò l’uomo, ma trasformò l’eroe in mito.
Il prodotto più famoso a lui associato furono i fiammiferi, prodotti dall’inglese Bryant and May. Riportavano il nome e l’immagine del Capitano. Furono prodotti dagli anni ’80 dell’800 fino agli anni ’90 del ‘900, tra vari passaggi di proprietà. Oltre cento anni di endorsment, e miliardi di pezzi prodotti.
Cosa ci insegna la storia del Capitano Webb, oltre a non nuotare sotto le cascate del Niagara? Che prima ancora della nascita dello sport organizzato come lo conosciamo oggi, prima delle Olimpiadi, prima dei campioni del Baseball targati USA degli anni ’30, prima di Jordan, Schumacher, Tiger Woods e McGregor, il personal branding delle celebrities sportive e l’endorsment erano già indissolubilmente legati alla dimensione valoriale.
Webb era un pioniere. Era un eroe vittoriano, incarnazione del mito dell’individualismo borghese, erede di Robinson Crusoe. Il Capitano dimostrava ancora una volta che il gentleman tutto può, grazie ad una volontà indissolubile; con le proprie forze, senza rinunciare all’aplomb e al baffo curato.
Offriva il set valoriale perfetto per l’epoca e nel corso di un secolo si è trasformato da icona pop per i suoi contemporanei ad effige vintage. Il legame con il prodotto è talmente forte che la fine del fiammifero come oggetto di uso quotidiano seppellisce definitivamente il Capitano.
Quando McGregor diventa un brand, lo fa con un portato valoriale. È Beckham cattivo. È Tyson arguto. È Bruce Lee senza comparse. È Rocky Balboa ricco che si fa i selfie con Adriana in una suite a 5 stelle. Oramai non è più essenziale che l'uomo vinca o perda sul ring nel breve periodo, è il brand che prende il sopravvento. Sta a Conor guidarlo verso i prossimi traguardi, senza depauperare la brand equity. Ai suoi sponsor rimane il compito di capire quali valori esprima, e come trasformarli in leve.