Lo shopping, come tutte le attività umane, ha subito un’evoluzione nel corso dei decenni. Dall’apertura dei primi grandi magazzini negli Stati Uniti e in Gran Bretagna a cavallo tra il XIX e il XX secolo, gli spazi e i comportamenti sono cambiati rapidamente adattandosi alle mode e alle variazioni culturali fino alla comparsa di una nuova modalità, quella dell’acquisto online, che sembra costituire un punto di non ritorno ed essere in grado di cambiare per sempre il panorama del retail.
Per capire come si sia arrivati qui vale la pena ripercorre le tappe che hanno portato la situazione al punto in cui ci troviamo per poi provare ad intuire anche una visione possibile del futuro.
In principio fu Harry Gordon Selfridge: imprenditore americano cresciuto commercialmente a Chicago, grazie alla sua visione degli affari accumulò una fortuna con cui aprì il primo vero grande magazzino della storia, Selfridge, in Oxoford Street a Londra. I suoi meriti non si limitano a questa prima pietra miliare del retail, perché a lui si deve l’applicazione su larga scala del concetto “Il cliente ha sempre ragione” ma anche una vera e propria trasformazione del modo di fare compere dell’epoca che, grazie ad un mix fatto da un nuovo modo di disporre la merce in negozio, vetrine sgargianti e lasciare che i clienti si perdessero tra gli scaffali facendosi rapire dai colori e dalle fogge, passò per sempre dall’essere una routine dettata dalla necessità a diventare un’avventura.
Se Selfridge fu un rivoluzionario per la scena europea però non ci si può dimenticare del padre spirituale del retail, Alexander Turney Stewart. Venditore dotato di una straordinaria capacità di lettura del comportamento delle masse, mise in opera delle pratiche che ad ancora oggi sono dei capisaldi della vendita al dettaglio, come l’”entrata libera”, il non concedere credito ai clienti e lo stabilire dei prezzi fissi per la merce, nonché un periodico “svuotatutto” (antesignano dei moderni saldi ) per liberare gli spazi di stoccaggio dalle rimanenze della passata stagione per fare posto alle nuove collezioni.
Sulla scia di questi esempi infine, di nuovo a Londra, arrivò Harrod’s che decretò la nascita del cosiddetto “Total Shopping” ospitando all’interno dei propri grandi magazzini gallerie d’arte ed esposizioni, sale da the, sale per fumatori e concerti.
L’applicazione di queste regole, semplici ma incredibilmente efficaci, legate all’esplosione del consumismo su scala globale in seguito al secondo conflitto mondiale ha fatto sì che la crescita del mercato del retail si basasse attorno ad un sistema di principi tanto funzionante da sembrare di poter durare per sempre, in una logica di ingrandimento di spazi e offerta merceologica tendente all’infinito.
Almeno fino all’arrivo di internet.
Quello che sembrava all’inizio una semplice implementazione della vendita a mezzo posta si trasforma rapidamente in ciò che oggi è ritenuta, dall’universo del retail fisico, la nemesi che sta portando all’estinzione del mercato di settore e dell’idea stessa di negozio reale.
Di soluzioni per contrastare lo strapotere delle vendite online ne vengono partorite a ritmo continuo ma sembrano tutte soffrire di un grande difetto: essere irreali una volta applicate al di fuori dell’ambiente di sperimentazione dove vengono testate.
I negozi mobili completamente robotizzati che combinano la guida autonoma, le tecnologie di riconoscimento facciale e i pagamenti mobile stanno venendo effettivamente sperimentati in alcune città cinesi ma, così come i negozi totalmente privi di personale di Amazon, sembrano essere solamente dei palliativi limitati pure dalle tecnologie esistenti.
Dunque è finita? Tra qualche anno faremo i nostri acquisti esclusivamente attraverso uno schermo? No.
Lo shopping online ha portato alla luce un modello diverso di comprare cose, basato su principi diversi dal modello attuale: convenienza, velocità. prezzi più bassi della concorrenza, responsività alle preferenze già espresse. Sembra uno schema perfetto.
Eppure la situazione è diversa, perché nonostante la crescita esponenziale di colossi come Amazon e, soprattutto, Alibaba tutti gli esperti di settore sono concordi nel dire che l’interazione umana continua ad essere richiesta in molti casi e che la stragrande maggioranza degli acquisti in tutto il mondo avviene ancora di persona.
Quello che sta mettendo in evidenza il fenomeno dell’ecommerce è la necessità di un adattamento del modello di business, non di un azzeramento. Le prove sono sotto gli occhi di tutti.
Alibaba, il colosso del commercio online capitanato da Jack Ma, ha avviato un beta test creando un brand di retail (Hema) specializzato nella vendita di prodotti ittici che da la possibilità al cliente di portare a casa il prodotto o di farselo cucinare direttamente in loco dai cuochi a disposizione, il tutto condito da un sistema di realtà aumentata che fornisce informazioni in tempo reale sul pescato.
Bonobos, azienda statunitense di abbigliamento maschile dedita alla vendita esclusivamente online nata nel 2007, a partire dal 2012 ha cominciato l’apertura di negozi fisici ribattezzati “Experience Store” dove è possibile provare provare i capi e le taglie e acquistarli immediatamente sul web, facendoseli spedire a casa.
La particolarità di questi punti di “non” vendita è che non ci sono nemmeno i commessi bensì delle figure che possono essere definite consiglieri (perché da contratto non hanno più incentivi alla vendita) o addirittura delle guide, il cui scopo è quello di instaurare un rapporto con la persona che varca la soglia, una sorta di amicizia commerciale.
Così come Bonobos, negli Stati Uniti sono decine le imprese web-centriche che stanno entrando nel mondo fisico con l’apertura di store, showroom e altri spazi di questo genere. Ma non era l’ecommerce che avrebbe dovuto soppiantare completamente il commercio fisico?
In realtà grazie ai grandi numeri messi in fila dalle vendite digitali ci si è accorti di un singola ma importantissima differenza tra vendita online e offline: i clienti della prima, a differenza di quelli della seconda, hanno una relazione emotiva molto più debole con il “negozio” di turno perché non sviluppano alcun legame con un luogo e le sue peculiarità nonché con le persone che lì vi lavorano, dunque tendono ad essere molto più infedeli nei comportamenti di acquisto.
La risposta alla “minaccia del web” per il retail sta nella creazione di un ecosistema che sia in grado di integrare davvero tutti i canali di vendita, digitali compresi, per rispondere nel modo più organico possibile all’estrema frammentazione della società del nostro tempo.
Il brand non deve più solo essere la garanzia di un universo valoriale proiettato sul prodotto acquistato ma deve evolvere in una sorta di club di cui il cliente aspira a far parte abbracciandone interamente l’esperienza, digitale o reale che sia.
Come dicevano i saggi: in medio stat virtus, ovvero la classica via di mezzo.