Il brand fondato nel 1948 da Rudolf Dassler — fratello di quell’Adolf che l’anno successivo fondò Adidas — ha rimesso scarpe e piedi nel mondo della pallacanestro professionistica. E non lo ha fatto sottovoce.
Così, con un tweet da ottanta caratteri pubblicato nella notte tra il 15 e il 16 giugno, Puma — una delle più grandi aziende al mondo nel settore del fashion e dello sportswear — ha ufficializzato il suo ritorno nel mondo della pallacanestro professionistica.
Non un comunicato stampa né una conferenza, non una telecamera o un registratore a raccogliere dichiarazioni. Un come che, al netto della grande rilevanza del cosa, la dice lunghissima sull’approccio moderno, digitale, con cui il brand tedesco ha deciso di intraprendere questo nuovo percorso.
Che poi tanto nuovo non è.
Fondato nel 1948 a Herzogenaurach da Rudolf Dassler — fratello di quell’Adolf che poco più di un anno dopo darà vita al brand Adidas — il marchio Puma ha infatti un passato tutt’altro che trascurabile legato alla palla a spicchi, avendo lanciato, nel lontano 1973, la prima, storica signature shoe: quel modello di scarpe legato sportivamente e commercialmente ad un singolo atleta. Una mossa di diversi anni in anticipo su Adidas e Nike, che con il tempo hanno prima colmato il gap e poi, successivamente, preso il largo, lasciando briciole e poco altro alla loro rivale e costringendola nel 1998 ad abbandonare definitivamente il mondo della pallacanestro.
Vent’anni dopo, il business delle calzature sportive è un gigante capace di muovere, su base annuale, una cifra molto vicina ai 20 miliardi di dollari nei soli Stati Uniti d’America. Un business dove i lanci di colorway e modelli nuovi si susseguono 365 giorni all’anno, senza soluzione di continuità, dove le code fuori dai negozi per aggiudicarsi un paio di retrò in edizione limitata iniziano la notte precedente, e dove il parco giocatori si rinnova ogni anno con gli atleti più promettenti in uscita dal college. E il processo di recruiting con cui le squadre cercano di assicurarsi i servizi delle stelle più brillanti non è affatto diverso da quello delle varie Nike, Adidas e Under Armour: alla costante ricerca della next big thing, del prossimo fenomeno.
È proprio da loro che Puma ha deciso di partire: mettendo nero su bianco le firme di quattro atleti giovani, se non giovanissimi, con una lunga e promettente carriera NBA tutta da scrivere. I nomi diranno poco o nulla, al momento — DeAndre Ayton, Marvin Bagley III, Michael Porter Jr. e Zhaire Smith — ma la speranza che un giorno possano diventare gli idoli dei ragazzini di tutto il mondo è più che concreta.
Nell’attesa che i giovani talenti sboccino, intanto, il marchio tedesco potrà fare affidamento su una schiera di ambasciatori di lusso, anche off-court: dalle giovani modelle Cara Delevigne e Kendall Jenner alla popstar Rihanna, passando per i rapper Big Sean e Meek Mill: un dream team di personalità che gravitano costantemente attorno al mondo dello sportainment, e alle quali si è aggiunto, ciliegina sulla torta, Shawn Carter: newyorkese, imprenditore e rapper di successo, nonché fondatore dell’agenzia di management sportivo Roc Nation Sports. Carter, meglio noto come Jay-Z, è stato nominato consulente creativo del neonato brand Puma Basketball, ed ha svolto un ruolo di primo piano nel processo che ha portato al lancio dei primi prodotti.
Prodotti estremi, polarizzanti, dallo stile unico e inconfondibile, che nel bene e nel male hanno fatto parlare di sé, contribuendo ad alimentare ulteriormente l’hype che ha circondato Puma dal momento in cui è stato pubblicato quel fatidico tweet.
“La nostra storia e il nostro passato ci danno un grande vantaggio nel confronto diretto con molti dei nostri competitor,” ha dichiarato Adam Petrick, Global Director of Marketing and Brand di Puma. “Jay-Z ha detto che il suo primo obiettivo con noi sarebbe stato quello di onorare i nostri due principali volti del passato: Walt Frazier e Tommy Smith.”
Detto, fatto: parallelamente ai quattro talenti emergenti in uscita dal college, Carter ha messo sotto contratto a vita l’eccentrico ex giocatore dei New York Knicks Walt Frazier, quello stesso atleta che nel 1973 si vide dedicare la prima signature shoe della storia: la Puma Clyde — riprodotta e rivenduta in tiratura limitatissima in occasione dell’evento di New York. Un nome, quello di Frazier, che va ad affiancarsi ad una schiera di sportivi extra-basket che vanta stelle del calibro di Usain Bolt, Sergio Aguero e Rickie Fowler, oltre che di un numero ragguardevole di club e nazionali di calcio, atletica e Formula1. Un firmamento di atleti che, combinato con le personalità dello show business che già vestono il logo con il Grosso Felino, potrà e dovrà fare da cassa di risonanza per ogni iniziativa di Puma Basketball.
Passati i primi euforici quindici giorni, le acque paiono essersi momentaneamente calmate, complice il fatto che l’inizio della stagione sportiva dista ancora diverse settimane. Il primi step del piano di marketing hanno ottenuto l’effetto desiderato, e il buzz generato dal neonato brand Puma Basketball fa ben sperare. Certo, prima o poi bisognerà anche iniziare a vendere qualcosa…
Perché, per quanto la carta patinata e le luci dei riflettori facciano sempre piacere, è ai libri contabili che spetta sempre l’ultima parola, e nonostante il 2017 sia stato un anno eccezionale dal punto di vista del fatturato — 4.14 miliardi di euro, +16% rispetto all’anno precedente, con il 48% proveniente dal footwear — sarà comunque necessario muoversi con cautela e ponderare a lungo le mosse successive.
Di precedenti infelici — con marchi che irrompono nel mondo della pallacanestro con prepotenza e ne escono con le ossa rotte poco tempo dopo — se ne sono già visti. Scemata l’euforia iniziale, pertanto, Puma dovrà trovare il modo di convertire il tutto in vendite, penetrare il mercato e solidificare la propria posizione, affermandosi come valida alternativa ai giganti Nike e Adidas.
La grandezza del marchio globale non si discute. Se riuscirà o meno in questa nuova impresa, invece, è tutto da vedere.