Come ogni anno durante il mese di giugno si è celebrato Pride Month, mese in cui la comunità internazionale LGBTQIA+, in ricordo dei famosi moti di Stonewall, ha deciso di celebrare il proprio orgoglio, i propri diritti e le lotte tuttora in corso per ottenerli. Pubblicamente ostacolato da alcuni settori della società vicini a specifiche aree della politica e della religione, il mese del Pride è stato ancora una volta, grazie ai social network, la cartina tornasole della società attuale. Ancora una volta difatti una parte di aziende si è adoperata nel supportare le istanze LGBTQIA+, tra appoggio sincero e non.
Negli ultimi anni, in concomitanza con il Pride Month, ha preso sempre più piede una ben nota strategia di marketing volta ad accostare il proprio brand alle suddette istanze. Queste strategie hanno spesso ottenuto un impatto del tutto negativo per l’immagine brand. Si è parlato in questi casi di rainbow washing.
Rainbow washing è un neologismo ormai ben noto, volto ad indicare l’accostamento di un brand alla causa come semplice mezzo per incrementarne le vendite. Durante il mese di giugno sono numerosi i loghi che abbiamo visto prendere tinte arcobaleno, innumerevoli i marchi che hanno realizzato merchandise di rito creando collezioni dedicate, limited edition e personalizzazioni rainbow. Le aziende hanno infatti compreso che durante il Pride Month la comunità LGBTQIA+, e chi la supporta, effettua acquisti, molti acquisti, e hanno pensato di sfoggiare il proprio sostegno in un’ottica di monetizzazione. Secondo Forbes la comunità LGBTQ+ detiene 3,7 trilioni di dollari di potere d’acquisto. Uno studio di MarketingMag afferma che quasi il 70% degli omosessuali ha ammesso di essere positivamente influenzato da annunci che contengono immagini che li ritraggono.
È noto il caso di Marks & Spencer, la catena di supermercati britannica che ha lanciato qualche anno fa l’LGBT Sandwich, un panino farcito con Lettuce, Gucamole, Bacon e Tomato, LGBT per l’appunto, confezionato in un packaging dai colori arcobaleno. Una variante di uno dei tradizionali tramezzini, con l’aggiunta di un ingrediente tale da formare l’acronimo esatto.
Nonostante parte dei proventi della vendita sia stata destinata a delle associazioni benefiche che operano a favore della comunità LGBT, molte sono state le critiche ricevute. L’iniziativa, banalizzando un tema tanto delicato e sortendo l’effetto di ridicolizzarlo, è stata riconosciuta come una mera operazione commerciale tesa a sfruttare l’attenzione generata dal Pride Month. Il caso di Marks & Spencer è l’esatta dimostrazione di come approcciarsi ad una causa sia una tattica delicata, non esente da rischi.
Esattamente, che cosa contraddistingue un approccio vincente da uno destinato a fallire? Innanzitutto quando il sostegno è meramente performativo, non si può certo chiamare sostegno. Commercializzare la causa LGBTQIA+ non è difatti sinonimo di sostenerla e i follower, diventati sempre maggiormente consapevoli, non hanno difficoltà ad accorgersene. Non è cosa difficile per il consumatore verificare che il supporto sia sincero e non una semplice strategia di marketing, che le politiche aziendali non contribuiscano al problema e che vi sia un impatto positivo e reale non solamente sul brand, ma anche sulla causa stessa che si supporta. L’inflazionata retorica del love is love, di logo e cover che per un mese si tingono dei colori arcobaleno, per tornare gli stessi di sempre con l’arrivo di luglio, mettono in ombra tutto il resto. Come ha perfettamente sintetizzato Enrico Gullo su Gaypost “Il problema di tutto questo è che interi pezzi di rivendicazione Lgbtqia+ vengono lasciati fuori”. L’ipocrisia e la gestione scorretta di alcuni bastano allora per dire no a tutti? È certo che chi si “vota” a una causa ne guadagni in visibilità, allarghi il proprio pubblico ed incrementi le vendite, ma è anche necessario riconoscere che le aziende non sono delle entità vuote e a sé stanti, detengono invece una propria responsabilità in materia di inclusione. Come regola generale dunque, se un’azienda o un brand intendono approcciarsi al supporto della comunità LGBTQIA+ nei loro social network, devono assicurarsi che:
Ci sono brand che da sempre sono schierati in prima linea a fianco della minoranza, è il caso ad esempio di Coca-Cola. Il marchio da anni ha plasmato la propria identità in una chiave ideologicamente impegnata, plurale, innovativa, da anni ha deciso di sostenere economicamente il Pride in quanto sponsor ufficiale e risale al 2020 il lancio in Ungheria di una campagna contro l’omofobia.
L’essere un’azienda engagé è anche uno dei tratti distintivi di Ikea, un marchio che ha da sempre palesato la sua mission inclusiva e plurale e che, in antitesi con la retorica predominante incentrata su di una tradizione stereotipata, ha fondato la propria narrazione sull’uguaglianza e la bellezza della diversità con campagne promozionali tese a ribaltare il luogo comune che circonda l’icona familiare per antonomasia, la casa.
Da anni la multinazionale svedese è schierata a sostegno di Quore – associazione che si occupa di co-housing per persone lgbt cacciate dalle famiglie – e ha voluto dare, assieme ad altre aziende e realtà del Terzo Settore, contributi economici anche alla prima casa d’accoglienza realizzata a Torino.
Che ci si schieri o meno a favore di certe prese di posizione social, è cosa nota che la comunicazione digitale sia uno strumento che ad oggi permette di arrivare a tutti e di trasmettere messaggi importanti. Una digital strategy però non è sufficiente, la differenza reale la fa una strategia che nasce all’interno di brand e aziende e che li accompagna costantemente.
Fonti:
Wolny, Nick (10 June 2019). Entrepreneur.
entrepreneur.com. Retrieved 24 March 2020.
https://www.marketingmag.com.au/hubs-c/gay-lesbian-marketing-lgbtiqa/
https://thevision.com/attualita/pride-sponsor/
https://www.internazionale.it/opinione/cas-mudde/2021/06/25/lgbt-uefa-ungheria
https://www.gaypost.it/pride-business-enrico-gullo
https://www.techeconomy2030.it/2020/02/03/rainbow-washing/